VENDITA ALL'ASTA DI IMMOBILE STRUMENTALE

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  • Ultimo messaggio 08 giugno 2019
raf64 pubblicato 04 giugno 2019

Buongiorno, mi sono trovato un'atto di precetto con successivo pignoramento dell'immobile dato in ipoteca volontaria alla banca per la concessione di un mutuo di 300.000,00 euro e di cui sono rimasto indietro di 10 rate. Preciso che il mutuo era garantito oltre che dall'immobile dal valore di circa 1.700.000,00 euro anche da un pacchetto azionario della medesima banca di euro 100.000,00

La banca mette ipoteca sull'immobile per 600.000,00 

Rimanendo indietro di circa 10 rate la banca con comunicazione mi avvisa di aver incassato il controvalore dell'azioni date in garanzia e che l'importo copriva abbondantemente le rate scadute ma comunque la banca effettuava pignoramento dell'immobile.

Si precisa che da una mia richiesta di tutta la documentazione inerente la pratica di mutuo (firma dei pegni, bilanci societari, perizie sull'immobile etc) la banca non mi ha risposto proprio ed io sono certo che non hanno nessuna documentazione firmata.

Poi il G.E. nominato il perito fa una perizia dell'immobile talmente striminzita con numerosi errori come errati mq dichiarandola senza agibilità (ma in realtà esiste tutto visto che trattasi di struttura polivante di pubblico spettacolo con tanto di certificato prevenzione incendi, commissione vigilanza pubblico spettacolo etc) inoltre il perito non definisce nemmeno quanti vani sono all'interno, la tipologia di pavimentazione, i numerosi servizi igienici, la presenza di una sala ristorazione etc etc) cmq alla fine la deprezza del 20% senza nemmeno spiegarne i motivi.

Stiamo parlando di un complesso con due strutture di cui una funzionante di oltre 2400 mq di un'altra in corso di costruzione di oltre 2500 mq e circa 25.000 mt di terreno 

mi chiedo partendo da un prezzo di 1.377.000,00 euro di stima della perizia della ctu (valore di mercato di oltre 3.000.000,00 euro) il tribunale fino a che valore minimo la potrebbe vendere?

Poi trattandosi di un bene strumnentale della società esecutata in cui vi esercitava la propria attività con proprie licenze....il custode poteva estromettere e chiudere l'attività appena preso possesso dell'immobile?

Era compito del custode inventariare tutti i beni mobili strumentali e arredi presenti all'interno del valore di circa 800.000,00euro?

 

Grazie

inexecutivis pubblicato 08 giugno 2019

Cerchiamo di rispondere alle diverse domande formulate.

Quanto all’inventario, riteniamo che il custode avrebbe dovuto, provvedere a redigere un inventario, quanto meno per ragioni di opportunità, anche se era onere del proprietario dei beni ivi presenti asportarli nel momento in cui l’immobile è stato consegnato al custode.

Quando alla chiusura dell’attività il discorso è molto più articolato, e non può essere riassunto in questa sede. Ci limiteremo, dunque, a fornire delle indicazioni di carattere generale.

Va sempre più affermandosi l’idea per cui la custodia dell’immobile pignorato non si esaurisce in una attività di mera conservazione del cespite, ma si sostanzia nell’esercizio di attività di amministrazione attiva dello stesso, volto non tanto a preservarlo nella sua materialità, quanto piuttosto a mantenerne integro il valore economico. Tuttavia, poiché il pignoramento ha ad oggetto i beni del debitore nello stato di fatto e di diritto in cui essi si trovano al momento del pignoramento medesimo, e poiché soprattutto l’amministrazione di un cespite ha dei costi che evidentemente il debitore non sarà disponibile a sostenere, di questi costi non può farsi carico, sempre e comunque, il creditore quante volte quei costi non siano necessari al processo, apparendo invece soltanto utili, eventualmente allo stesso.

In questi termini sembra essersi recentemente espressa la corte di cassazione Sez. III,22 giugno 2016, n. 12877, la quale occupandosi del caso di un immobile che necessitava di opere di manutenzione necessarie all’immediata conservazione del cespite e ad evitare pericoli alla sua struttura, ha osservato che “rientrano tra le spese da anticiparsi dal creditore procedente ex art. 8 d.p.r. n. 115 del 2002 non solo le spese giudiziarie vere e proprie, ma anche quelle spese, anch’esse immanenti alla realizzazione dello scopo proprio dell’espropriazione forzata, in quanto intese ad evitarne la chiusura anticipata, quali le spese necessarie al mantenimento in esistenza del bene pignorato, come quelle che attengono alla sua struttura o sono intese ad evitarne il crollo o, in genere, il perimento. Tali spese, se onorate dal custode con i fondi della procedura, risulteranno in senso lato "prededucibili", nel senso che l’importo relativo non entrerà a far parte dell’attivo; mentre dovranno essere rimborsate, come spese privilegiate ex art. 2770 cod. civ., al creditore che le abbia corrisposte, ottemperando al provvedimento del giudice dell’esecuzione che ne abbia posto l’onere dell’anticipazione a suo carico. Restano, invece, escluse dalle spese "necessarie", da onorarsi in via di anticipazione dal creditore procedente ai sensi della norma cit., quelle spese che non abbiano un’immediata funzione conservativa della stessa integrità del bene pignorato e, quindi, le spese dirette alla manutenzione ordinaria o straordinaria dell’immobile, così come gli oneri di gestione condominiale.

Del pari complesso è il tema della individuazione del limite oltre il quale non potranno spingersi le vendite.

A questo proposito va premesso che l’art. 19, comma 2, lett. b) del d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con l. 10 novembre 2014, n. 162 ha introdotto l’art. 164 bis disp. att. c.p.c. il quale dispone che “Quando risulta che non è più possibile conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori, anche tenuto conto dei costi necessari per la prosecuzione della procedura, delle probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo, è disposta la chiusura anticipata del processo esecutivo”.

La norma costituisce l’espressione di una netta (almeno in linea di principio) scelta rispetto al tema, assai sentito, del limite entro il quale sia “ragionevole” proseguire con le operazioni di vendita allorquando le possibilità di realizzo si assottigliano oltremodo. Se il bene, nonostante i ribassi applicati nei vari tentativi, rimane invenduto, fino a che punto la procedura deve ulteriormente procedere?

Con questa norma il legislatore ha espressamente riconosciuto la possibilità di una “chiusura anticipata del processo esecutivo”.

Dalla relazione relativa al disegno di legge di conversione del d.l. 132/2014, si legge chiaramente che la norma è stata coniata allo scopo di evitare "che vadano avanti (con probabili pregiudizi erariali anche a seguito di azioni risarcitorie per danno da irragionevole durata del processo) procedimenti di esecuzione forzata pregiudizievoli per il debitore ma manifestamente non idonei a produrre il soddisfacimento degli interessi dei creditori in quanto generatori di costi processuali più elevati del concreto valore di realizzo degli asset patrimoniali pignorati", aggiungendo che l’ordinanza di chiusura anticipata per infruttuosità sarà impugnabile nelle forme dell’opposizione agli atti esecutivi.

Da tali indicazioni è stata ricavata da taluna dottrina la condivisibile affermazione per cui essa non è (come pure altri hanno ritenuto) strumento di contemperamento tra l’interesse al soddisfacimento dei creditori e l’interesse del debitore a non vedere “svenduto”, bensì mezzo di tutela di un interesse, proprio dell’amministrazione della giustizia, "ad evitare che proseguano sine die procedure esecutive inidonee a consentire il soddisfacimento degli interessi dei creditori, con inutile dispendio di risorse".

Come si vede, il legislatore ha quindi canonizzato l’antieconomicità della procedura come causa di “chiusura anticipata” della medesima.

La lettera della norma induce a ritenere che la infruttuosità dell’esecuzione si atteggi a causa di estinzione atipica della procedura, con tutte le conseguenze che questo determina in punto di effetti sulla prescrizione e regime di impugnazione del provvedimento.

Secondo la lettera della norma, affinché la procedura sia dichiarata improseguibile è necessario accertare l’impossibilità di conseguire un “ragionevole soddisfacimento” delle ragioni “dei creditori”; questo giudizio deve essere formulato “anche” tenendo conto:

-          dei costi necessari per la prosecuzione della procedura;

-          delle probabilità di liquidazione del bene;

-          del presumibile valore di realizzo.

Insomma, il Giudice deve compiere una valutazione comparativa tra le ragioni “dei creditori” (si noti il plurale), da un lato, i costi della procedura, la probabilità che si giunga ad una vendita ed il presumibile valore di realizzo dall’altro, e disporre la chiusura della procedura quante volte il risultato di siffatta valutazione lo conduca a ritenere inverosimile approdare ad un “ragionevole soddisfacimento” delle pretese creditorie.

Ora, ciò detto, è evidente che comprendere quando questo si verifichi è compito tutt’altro che agevole, e non a caso l’espressione normativa è volutamente ampia.

Così, stando al tenore della previsione, dovrebbe certamente escludersi che la procedura possa proseguire quando i costi necessari al suo ulteriore divenire superino il presumibile valore di aggiudicazione. Allo stesso modo, sul versante opposto, pare difficile che possa dichiararsi improseguibile una procedura in cui, nonostante i numerosi ribassi, il prezzo di vendita, sebbene assai ridotto rispetto a quello iniziale, conservi una consistenza ancora economicamente apprezzabile.

Sennonché, al di fuori di questi casi, il limite di proseguibilità assume contorni certamente più sfumati. In ipotesi, potrebbe verificarsi che il valore di aggiudicazione del bene è più o meno corrispondente ai costi della procedura già sostenuti; stando alla lettera della norma, in questa evenienza la procedura dovrebbe interrompersi poiché le pretese creditorie non hanno alcuna possibilità di trovare ragionevole ristoro, e tuttavia è legittimo che il creditore chieda di proseguire, per lo meno al fine di evitare che una estinzione anticipata della procedura lo obblighi a dover sostenere anche le spese già anticipate.

La soluzione praticabile, allora, deve considerare il singolo caso di specie e deve indurre a provocare il contradditorio tra le parti allorquando, a fronte dei numerosi tentativi di vendita già compiuti, il prezzo base sia notevolmente più basso (si potrebbe pensare ad una percentuale dell’80%, con l’avvertenza che comunque si tratta di una indicazione di larga massima, poiché, ovviamente, l’80% di 10 mila euro è altro rispetto all’80% di 1 milione di euro) di quello originario, o comunque prossimo all’importo delle spese già sostenute. In questi casi è opportuno che il professionista delegato, specie se una indicazione in tal senso è contenuta nell’ordinanza di delega, rappresenti la situazione al Giudice dell’esecuzione affinché questi assuma le determinazioni del caso; in particolare, è utile che il delegato indichi:

-          le pretese dei creditori, sia complessivamente che singolarmente;

-          l’importo delle spese di giustizia sostenute e prevedibilmente da sostenere a norma degli artt. 2755 o 2770 c.c., specificando, in particolare, i costi medi sostenuti per i tentativi di vendita già espletati;

-          le ragioni che hanno ostacolato l’esitazione dei beni staggìti (ad es. mancata emissione dell’ordine di liberazione, necessità di regolarizzazioni edilizie e urbanistiche, necessità di interventi di manutenzione), specificando se sussistano probabilità di liquidazione del bene, tenuto anche conto di eventuali contatti intrattenuti con interessati all’acquisto;

-          il presumibile valore di realizzo del bene pignorato, qualora si dovesse optare per la prosecuzione delle attività di vendita.

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