Rispondiamo all’interrogativo muovendo dalla premessa per cui, poiché nella domanda si fa riferimento al “curatore”, l’acquisto sia intervenuto in seno ad una procedura fallimentare.
Ciò detto, osserviamo quanto segue.
A norma dell’art. 31 l.fall. “Il curatore ha l'amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell'ambito delle funzioni ad esso attribuite”. Egli, a norma dell’art. 42 l.fall. e 559 c.p.c. ha la custodia dei beni ricompresi nel fallimento per effetto stesso della sentenza che lo dichiara (in questi termini Cass., sez. I, 08/05/2009, n. 10599).
È chiaro dunque che custode dei beni ricompresi nel fallimento è il custode, che esercita questa attività sotto la “vigilanza” del giudice delegato e del comitato dei creditori dei creditori.
Questa custodia non è fine a se stessa, ma funzionale alla migliore collocazione della medesima sul mercato (o al loro utilizzo nel caso di esercizio dell’impresa), in vista del miglior realizzo, a sua volta funzionale alla più ampia tutela del ceto creditorio, sicché ad esempio, se il curatore decide (nel programma di liquidazione redatto ex art. 104 ter l.fall.) di vendere quei beni, deve farlo nel migliore dei modi possibile.
Detto questo, se allora l’aggiudicatario rappresenta di avere la necessità di accedere al bene e se il curatore si rende conto del fatto che quell’accesso è necessario a garantire il versamento del saldo, deve consentirlo perché quell’accesso non solo tutela un interesse dell’aggiudicatario, ma soprattutto è necessario agli interessi della massa.
Riteniamo inoltre che l’accesso dell’aggiudicatario al bene debba essere consentito anche sulla scorta di altri argomenti.
Costituiscono principi generale dell’ordinamento quelli secondo cui le obbligazioni debbono essere adempiute secondo buona fede (art. 1375 c.c.) e con la diligenza del buon padre di famiglia (art. 1176 c.c.).
La buona fede rappresenta uno dei principi portanti dell’ordinamento, principio qualificato in dottrina come principio di ordine pubblico.
Nell’adempimento delle obbligazioni (di tutte le obbligazioni, indipendentemente dalla fonte legale o negoziale delle stesse) la buona fede si impone quale obbligo di salvaguardia, prescrivendo alle parti di agire in modo da preservare integri gli interessi dell’altra. Questo impegno di solidarietà, che si proietta al di là di quanto specificatamente previsto nel contratto (o nella legge), trova un limite nell’interesse del soggetto che è chiamato ad adempiere. Questi, cioè, è tenuto a far salvo l’interesse altrui ma non fino al punto di subire un apprezzabile sacrificio, personale o economico.
In questi termini si è detto che la buona fede identifica l’obbligo di ciascuna parte di salvaguardare l’utilità dell’altra nei limiti in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio.
La stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione, ha fatto propri questi concetti, affermando che “L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, applicabile in ambito contrattuale ed extracontrattuale, che impone di mantenere, nei rapporti della vita di relazione, un comportamento leale (specificantesi in obblighi di informazione e di avviso) nonché volto alla salvaguardia dell'utilità altrui, nei limiti dell'apprezzabile sacrificio” (Cass. Sez. 3, n. 3462 del 15/02/2007).
Traslando questi concetti al caso di specie, riteniamo che il curatore abbia l’obbligo di consentire l’accesso, anche in base ad un principio di buona fede.
Il suggerimento dunque è quello di richiedere formalmente al custode (tramite pec o raccomandata a.r.) di poter accedere al bene, indicando le ragioni, e magari rappresentando gli argomenti da noi svolti.