Cerchiamo di rispondere all’interrogativo riassumendo brevemente il quadro normativo di riferimento.
Com’è noto, l’art. 179-bis disp. att. c.p.c. dispone che la misura del compenso dovuta al professionista delegato per le operazioni di vendita è stabilita con decreto del Ministro della giustizia. Il comma secondo di detta disposizione specifica che esso è liquidato con decreto del Giudice dell’esecuzione, che pone a carico della procedura la quota parte relativa “alle operazioni di vendita”, mentre il compenso per le attività “successive” grava sull’aggiudicatario.
In applicazione di questa norma era stato emanato il d.m. 25 maggio 1999, n. 313 il quale determinava direttamente alcune voci del compenso, rinviando alle tariffe professionali per le altre.
La materia è stata riscritta dal D.M. 15 ottobre 2015, n. 227, integralmente sostitutivo del d.m. 313/1999, di cui ha disposto l’abrogazione.
In particolare, la disciplina del compenso spettante al professionista delegato alla vendita immobiliare è contenuta nell’art. 2, il quale lo determina con riferimento al prezzo di aggiudicazione, distinguendo 3 scaglioni: sotto i 100.000 euro, tra 100.000 e 500.000 euro, sopra i 500.000 euro.
Il compenso è calcolato poi con riferimento a 4 voci (le quali nella sostanza cercano di ripercorrere le fasi della procedura esecutiva):
1) per tutte le attività comprese tra il conferimento dell’incarico e la redazione dell’avviso di vendita, ivi incluso lo studio della documentazione ipocatastale;
2) per tutte le attività svolte successivamente alla redazione dell’avviso di vendita e fino all’aggiudicazione o all’assegnazione;
3) per tutte le attività svolte nel corso della fase di trasferimento della proprietà;
4) per tutte le attività svolte nel corso della fase di distribuzione della somma ricavata.
Le prime 3 voci della tariffa possono essere liquidate dal Giudice dell’esecuzione in relazione a ciascun lotto, quando le relative attività abbiano avuto ad oggetto più lotti, in presenza di giusti motivi. Lo stesso aumento è consentito per la liquidazione del compenso relativo alle attività di distribuzione del ricavato, quando la distribuzione ha ad oggetto somme riferibili a più debitori. Inoltre, nella versione originaria del decreto, il compenso poteva essere aumentato o diminuito dal Giudice dell’esecuzione del 60%, tenuto conto della complessità delle attività svolte.
Questa previsione è stata tuttavia parzialmente annullata dalla quarta sezione del Consiglio di Stato la Sentenza 30 ottobre 2019, n. 7440. In essa si è affermato che se non è irragionevole la soglia massima di aumento del compenso, “occorre, di contro, rilevare che la previsione di una così elevata percentuale di riduzione del compenso potrebbe portare alla liquidazione di valori eccessivamente esigui in relazione al tenore dell'attività espletata. Ne consegue che, in parte qua, con esclusivo riferimento alla percentuale massima di riduzione (60%) prevista dagli artt. 2, comma 3, per i beni immobili, e 3, comma 3, per i beni mobili iscritti in pubblici registri, il decreto ministeriale impugnato si rivela illegittimo e deve essere annullato, ferma restando, ovviamente, la facoltà per l'Amministrazione di rideterminarsi in ordine all'attribuzione al giudice dell'esecuzione della possibilità di una riduzione percentuale degli importi da corrispondere al professionista delegato, che tenga conto delle statuizioni contenute nella presente sentenza”.
Fatte queste premesse, è facile osservare che quello che conta non è tanto la richiesta del delegato, ma il decreto di liquidazione del giudice.
Si osservi poi che qestto decreto ha natura giurisdizionale e non amministrativa, e pertanto può essere impugnato ex art. 170 del d.P.R. n. 115/2002, ma non revocato d'ufficio dall’autorità giudiziaria che lo abbia emesso, in quanto questa, salvo i casi espressamente previsti, ha definitivamente consumato il proprio potere decisionale e non ha un generale potere di autotutela, tipico dell'azione amministrativa (Cass. Sez. VI-II 31 agosto 2017, n. 20640). L’impugnazione deve essere proposta entro il termine per impugnare previsto dall’art. 702-quater c.p.c. per il procedimento sommario di cognizione, le cui disposizioni regolano il giudizio di opposizione; ne deriva che questo termine è pari a trenta giorni, decorrenti dalla comunicazione o notificazione del provvedimento (Cass. Sez. II, 21 febbraio 2017, n. 4423).