Cerchiamo di rispondere separatamente alle due domande formulate.
Quanto alla prima, non riteniamo che vi sia alcuno spazio per affermare che il prezzo di vendita sia illegittimo poiché pù alto rispetto a quello previsto dalla convenzione.
Ricaviamo questo convincimento da una serie di considerazioni.
In primo luogo viene in rilievo l’art. 568, comma primo, c.p.c., a mente del quale “Agli effetti dell’espropriazione il valore dell’immobile è determinato dal giudice avuto riguardo al valore di mercato sulla base degli elementi forniti dalle parti e dall’esperto”. Il secondo comma di questa disposizione specifica inoltre le modalità attraverso cui giungere alla determinazione del “valore di mercato”. Il secondo comma della disposizione prevede che il valore sia determinato tenuto conto della superficie dell’immobile, con specificazione di quella commerciale, del valore al metro quadro e complessivo, dell’assenza della garanzia per vizi del bene venduto, dell’eventuale necessità di sostenere oneri di regolarizzazione urbanistica, dello stato d’uso e di manutenzione, dello stato di possesso, dei vincoli e gli oneri giuridici non eliminabili nel corso del procedimento esecutivo, nonché delle eventuali spese condominiali insolute.
Si tratta, come si vede, di un preciso indice normativo, avente carattere di specialità rispetto alle determinazioni negoziali, che trae la sua ratio proprio dal fatto che la vendita esecutiva non ha matrice negoziale e si svolge a prescindere ed anche contro la volontà del debitore.
In secondo luogo, le norme che disciplinano il regime circolatorio dei beni oggetto di edilizia agevolata (come ad esempio quelle che impongono vincoli di inalienabilità o prescrivono imperativamente il prezzo del trasferimento) hanno la funzione di evitare operazioni di speculazione economica che svierebbero l’immobile dalla funzione sua precipua.
In questa direzione la Corte di Cassazione ha più volte affermato che i vincoli di inalienabilità previsti per gli alloggi di edilizia economica popolare non impediscono che gli stessi possano essere trasferiti in sede di esecuzione forzata. Così si è espressa Cass. civ., sez. III, 5 agosto 1987, n. 6748, affermando che, “gli alloggi di edilizia economica e popolare assegnati e ceduti senza riserva di proprietà possono essere oggetto di pignoramento da parte dei creditori degli assegnatari e, quindi, possono anche essere venduti all’asta a qualsiasi partecipante alla gara a conclusione della procedura esecutiva, ancor prima che sia trascorso il decennio di cui agli artt. 29 della legge 14 febbraio 1963, n. 60, e 28 quinto comma, legge 8 agosto 1977, n. 513 ed indipendentemente dal possesso, da parte dell’acquirente, dei requisiti prescritti per la cessione originaria di quei medesimi alloggi, atteso che la nullità stabilita dalle disposizioni contenute nelle norme sopracitate riguarda esclusivamente gli atti volontari di disposizione compiuti dagli stessi assegnatari”.
Per le medesime ragioni, si ritiene ancora, ad esempio, che IACP (Istituto autonomo case popolari) non possa esercitare, nei confronti dell’aggiudicatario, il diritto di prelazione di cui all’art. 28, comma 9, l. 8 agosto 1977, n. 513, a mente del quale, “L'assegnatario può alienare l'alloggio qualora ricorrano, le condizioni di cui al precedente quinto comma. In tal caso deve darne comunicazione al competente istituto autonomo per le case popolari, il quale potrà esercitare, entro 60 giorni dal ricevimento della comunicazione, il diritto di prelazione all'acquisto per un prezzo pari a quello di cessione rivalutato sulla base della variazione accertata dall'ISTAT dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati”.
In forza delle ragioni appena esposte riteniamo, inoltre, che il precedente delle sezioni unite richiamato nella domanda (che non a caso riguardava una ipotesi di trasferimento negoziale e non coattivo) non possa applicarsi al caso di una vendita svoltasi in sede esecutiva.
Con riferimento al secondo aspetto della vicenda osserviamo quanto segue. A nostro avviso nel caso di specie non si può parlare di aliud pro alio. Invero, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione si va affermando il principio per cui La differenza strutturale tra la vendita forzata e quella negoziale è ostativa all'adozione, per la prima, di una nozione lata di "aliud pro alio", con la conseguenza che la nullità del decreto di trasferimento è ravvisabile solo in caso di radicale diversità del bene oggetto di vendita forzata ovvero se ontologicamente diverso da quello sul quale è incolpevolmente caduta l'offerta dell'aggiudicatario, oppure perché, in una prospettiva funzionale, dopo il trasferimento risulti definitivamente inidoneo all'assolvimento della destinazione d'uso che, presa in considerazione nell'ordinanza di vendita, ha costituito elemento determinante per l'offerta dell'aggiudicatario (Cass. Sez. III, 29 gennaio 2016, n. 1669. Si trattava del caso in cui una unità abitativa la cui inagibilità, dichiarata dal Comune per la presenza di elementi inquinanti, ed emersa solo a seguito di una integrazione della perizia di stima depositata dopo il versamento del prezzo da parte dell'aggiudicatario, ed era solo temporanea per la piena recuperabilità della salubrità dell'immobile).
Nel caso di specie, a nostro giudizio, questi elementi non ricorrono. Invero “la peculiarità del diritto di proprietà superficiaria … sta in ciò, che essa identifica, come oggetto di un diritto reale di godimento su immobile altrui, una porzione fisica separata dell’oggetto del diritto di proprietà su di un fondo (il quale ultimo normalmente si estende verso l’alto e verso il basso, entro i limiti ragionevoli di una adeguata possibilità di concreto sfruttamento), porzione che diviene oggetto di un diritto reale analogo a quello della proprietà, salvo solo il limite derivante nei confronti del concedente e del negozio di costituzione del diritto”, cosicché “nei confronti dei terzi il titolare della proprietà superficiaria può equipararsi ad un proprietario, essendo appunto dotato nei loro confronti, quanto al bene edificato al di sopra del suolo, di tutte le facoltà di norma facenti capo al dominus” (in questi termini si è espressa la Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 6576 del 14 marzo 2013).
Neppure ci sembra praticabile il rimedio di cui all’art. 1489 c.c., atteso che esso riguarda l’ipotesi, ontologicamente diversa da quella in esame, in cui la cosa venduta risulti gravata da oneri o da diritti reali o personali che ne diminuiscono il libero godimento e non sono stati dichiarati nel contratto (in questi termini si è espressa Cass. Sez. III, 13 maggio 2003, n. 7294, la quale in tema di trasferimento di un immobile gravato da un diritto di usufrutto ha affermato che, ove ne ricorrano i presupposti, il rimedio esperibile non è quello della garanzia per evizione bensì quello di cui all’art. 1489 c.c.
Ed allora, l’unica strada percorribile ci sembra quella tracciata dall’art. 2921 c.c., a mente del quale “L'acquirente della cosa espropriata, se ne subisce l'evizione, può ripetere il prezzo non ancora distribuito, dedotte le spese, e, se la distribuzione è già avvenuta, può ripeterne da ciascun creditore la parte che ha riscossa e dal debitore l'eventuale residuo, salva la responsabilità del creditore procedente per i danni e per le spese”. Secondo la giurisprudenza (Cass. civ. Sez. I, 09-10-1998, n. 10015) la norma, “consentendo all'aggiudicatario che non riesca a conseguire una parte del bene il diritto a ripetere una parte proporzionale del prezzo di aggiudicazione, impedisce che si verifichi un indebito arricchimento di coloro che dovranno ripartirsi il prezzo ricavato dalla vendita, in applicazione del principio generale della ripetizione dell'indebito.
È evidente, tuttavia, che una riduzione del prezzo potrà aversi solo verificando che il diritto acquistato abbia in concreto un valore minore rispetto a quello posto in vendita, e che lo stimatore non abbia in alcun modo tenuto conto del fatto che la stima aveva ad oggetto la proprietà superficiaria piuttosto che la piena proprietà