La risposta all’interrogativo formulato non è agevole.
È certo che il legislatore del 2019, nel prescrivere che il debitore e i familiari che con lui convivono non perdono il possesso dell’immobile e delle sue pertinenze sino al decreto di trasferimento, si è premurato di imporre all’esecutato vere e proprie obbligazioni ex lege.
Infatti: il debitore e pure i membri del suo nucleo familiare sono obbligati a conservare diligentemente il bene pignorato e a mantenere e tutelare la sua integrità (commi 2 e 6); l’esecutato deve consentire le visite all’immobile dei potenziali acquirenti, senza che sia ostacolato (da chicchessia) il diritto di visita degli interessati (commi 4 e 6); al debitore è preclusa la concessione in locazione del bene senza l’autorizzazione del giudice dell’esecuzione (comma 7); l’esecutato è tenuto al rispetto di tutti «gli altri obblighi che la legge pone a suo carico» (comma 6).
All’obbligo di conservazione il debitore e i membri del suo nucleo familiare devono provvedere in proprio, e dunque con proprie risorse (la cui mancanza non vale quale esimente non potendo costituire, la carenza di liquidità, giusta causa di inadempimento ex art. 1218 c.c.). Inoltre, essendo funzionale a preservare, nell’interesse della procedura, il valore economico dell’immobile come esistente al momento del pignoramento e a garantire “la piena corrispondenza tra la cosa sulla quale è caduta la manifestazione di volontà dell’aggiudicatario e quella venduta” (Cass., n. 1730/1995) esso impone l’adozione di tutti gli accorgimenti (una tantum o continuativi) volti ad evitare alterazioni peggiorative delle condizioni dell’immobile (nonché di pertinenze ed accessori), salvo il normale deterioramento per l’uso. L’obbligo di conservazione, sul piano soggettivo, deve essere adempiuto con la diligenza del buon padre di famiglia (comma 2), sanzionabile (con l’anticipata pronuncia dell’ordine di liberazione) per violazioni dolose o colpose (comma 6).
Detto questo, osserviamo che il primo comma dell’art. 560 prevedeva, e prevede, che «Il debitore e il terzo nominato custode debbono rendere il conto a norma dell’articolo 593 c.p.c.», il che sul piano processuale si traduce nel fatto che occorra presentare in cancelleria il conto di gestione con cadenza trimestrale, o nel diverso termine fissato dal giudice dell’esecuzione, nonché il rendiconto finale che sarà approvato dal giudice a norma dell’art. 178 disp. att. c.p.c..
Il rendinconto si sostanzia nella rappresentazione delle attività volte alla corretta amministrazione del cespite, con indicazione delle spese autorizzate (Cass. 23465/2004).
Discusso è se l’obbligo di rendiconto gravi sul debitore che continui a permanere nella disponibilità dell’immobile abitandolo, anche dopo la nomina del custode giudiziale, o se invece il debitore sia tenuto al rendimento del conto solo fino a quando rivesta le funzioni custodiali.
Secondo una prima impostazione, l’esecutato che continua ad abitare l’immobile pignorato conserva la disponibilità del cespite, con la conseguenza che gli obblighi posti a suo carico dalla legge e finalizzati al buon esito della procedura intrapresa nei suoi confronti imporrebbero la rendicontazione delle attività svolte fino al decreto di trasferimento, essendo tenuto al rendiconto chiunque eserciti attività gestorie nell’interesse altrui (Cass. 22063/2017).
Altri invece rileva che l’obbligo di rendiconto grava soltanto sul debitore che sia anche custode, non essendo sufficiente che egli abbia mantenuto la disponibilità dell’immobile per il fatto di abitarla. Invero, si osserva, autentico obbligo di rendiconto a carico del debitore presuppone la gestione e soprattutto l’amministrazione diretta del bene, ed esso, per come configurato dall’art. 593 c.p.c., presuppone il riferimento ad un custode terzo, ed anche se il primo comma dell’art. 560 sembrerebbe prevedere un obbligo di rendicontazione a carico di entrambi (custode e debitore), esso va letto come attributivo dell’onere del rendiconto al solo debitore custode).