Il relativo atto all’interno del quale può essere esercitata l’opzione IVA nei casi previsti dall’art. 10 primo comma, n. 8-bis) ed 8-ter, del d.P.R. n. 633 del 1972 è l’atto di cessione.
Si tratta, all’evidenza, di una norma coniata con lo sguardo rivolto verso le transazioni negoziali, sebbene sia ormai risaputo che anche i trasferimenti che avvengono in sede esecutiva sotto il profilo fiscale si qualificano come “cessioni”, sicché soggiacciono al regime tributario per esse individuato dal legislatore (Che anche il trasferimento del bene compiuto nell’ambito di una procedura esecutiva sconti l’IVA è opinione pacifica in giurisprudenza, laddove si è affermato che “La vendita in sede di esecuzione forzata di un bene facente parte di un’azienda va assoggettata all’IVA (ed alla imposta fissa di registro), atteso che l’art. 2 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, definisce al primo comma come cessioni di beni soggette ad IVA gli “atti a titolo oneroso che importano il trasferimento di proprietà”, adottati nell’esercizio di impresa, senza distinzione tra la natura volontaria o coattiva del trasferimento”. Cass. civ., sez. V, 7 luglio 2006, n. 15570).
Traslando questi concetti in sede esecutiva (dove evidentemente per atto di cessione deve intendersi il decreto di trasferimento) si potrebbe ritenere che il debitore esecutato abbia la possibilità di esercitare questa facoltà fino al momento in cui viene pronunciato il decreto di trasferimento.
Ciò, tuttavia, inevitabilmente crea un margine di incertezza in punto di determinazione del prezzo di aggiudicazione e quindi di costo complessivo della vendita, poiché il regime impositivo cui il decreto di trasferimento soggiace non è predeterminabile ex ante in ragione delle opzioni fiscali che il debitore esecutato può scegliere anche dopo l’aggiudicazione.
Si tratta di un problema che in ambito negoziale chiaramente non si pone, poiché durante le trattative alienante ed acquirente durante le trattative concordano i termini del sinallagma, sicché l’atto di cessione consacra una intesa ovviamente già intervenuta.
In sede esecutiva, invece, entrano in conflitto due contrapposti interessi: da un lato quello del debitore esecutato a scegliere se assoggettare o meno la cessione al regime opzionale dell’IVA, e dall’altro quello della procedura a predeterminare in modo quanto più chiaro possibile i termini della vendita, al fine di evitare incertezze tra i potenziali offerenti. Si tratta, com’è facile intuire, di un interesse giammai fine a sé stesso, ma funzionale a consentire la migliore collocazione del bene pignorato sul mercato,
Così prospettati i termini della questione, la sintesi delle antagoniste esigenze può essere trovata anticipando al momento della pubblicazione dell’avviso di vendita il termine ultimo in cui rimettere al debitore la facoltà di scelta. Questa soluzione, infatti, se consente di perseguire l’obiettivo di eliminare l’alea rappresentata dal costo delle imposte gravanti sul decreto, dall’altro non pregiudica il debitore, poiché gli consente comunque di esercitare il proprio diritto potestativo. Né si può ragionevolmente sostenere che questo pregiudica la posizione del debitore esecutato rispetto a quanto accade nelle ordinarie transazioni commerciali: è infatti sufficiente osservare che anche in ambito negoziale il venditore non può “tacere” in merito alla opzione iva fino al momento di stipula dell’atto (poiché evidentemente se così fosse l’acquirente potrebbe rifiutarsi di concludere l’affare), e che comunque si tratterebbe di un sacrificio (ove in ipotesi di questo si trattasse) che trova giustificazione nel superiore interesse, di rilievo pubblicistico, alla trasparenza della vendita ed al contenimento dei tempi della procedura.